Ho avuto una mezza crisi di scrittura recentemente, ho pensato di aver finito gli argomenti o forse c’era troppo caos intorno a me. Come dice Liberato in “O’Diario”: “Me so’ truvato nu poco bloccato, aggi”a dicere ‘a verità”.
Questa newsletter è iniziata da più di un anno ormai ma mancava di un claim, uno slogan, un messaggio che racchiudesse la sintesi di tutto quello che ho scritto e che vorrei vedere in futuro su questa piattaforma.
In un mondo di rumore, riscoprire la mitezza è un atto rivoluzionario.
Credo che ce ne sia molto bisogno nel mondo di oggi, dove è passata in primo piano la forza brutta, la prevaricazione. Ho preso in prestito questo termine molto primorepubblicano dal grande Norberto Bobbio, che descrive la mitezza come la “più impolitica delle virtù” nel suo testo Elogio alla Mitezza.
Bobbio distingue le “grandi” virtù eroiche (coraggio, gloria, sacrificio) da quelle “minori” (pazienza, modestia, discrezione, mitezza). Le prime affascinano perché spettacolari, ma sono ambivalenti: facilmente degenerano in violenza. Le seconde, benché meno appariscenti, reggono la tessitura quotidiana della vita associata. La mitezza è la più discreta e, per questo, la più trascurata.
È “l’arte di contenere l’impulso all’aggressione”, di frenare la reazione immediata per lasciare spazio a ragione e ascolto. Questo è l’obiettivo, leggermente ambizioso.
E poi Substack, non funziona secondo algoritmi, quindi il ricorso all’odio non è necessario.
Ora parliamo del dibattito su ciò che sta accadendo a Gaza.
Restare in silenzio non è più un’opzione, quindi vorrei provare a fare la mia parte.
In Italia si è consumato e continua a consumarsi un dibattito talmente tossico che credo continui a giocare un ruolo nella scelta sbagliata del nostro Paese di votare contro la revisione del trattato di associazione con Israele da parte dell’Unione Europea. Questo trattato regola le relazioni politiche e commerciali fra gli Stati membri e quello israeliano.
L’Italia ha votato contro insieme a Germania, Bulgaria, Grecia, Ungheria, Croazia, Cipro e Repubblica Ceca.
A titolo di esempio riporto qui un dibattito di pochi giorni fa, andato in scena su La7 all’Aria che Tira. Secondo me, ben rappresenta il contesto italiano degli ultimi tempi.
Da un lato Giuseppe Conte, dall’altro Maurizio Molinari, direttore del quotidiano la Repubblica. Molinari è da sempre un sostenitore della causa di Israele, mentre la posizione di Conte è nota da tempo.
Perché è esemplificativo? In TV, ormai, lo schema adottato è il seguente: bianco contro nero, pro-Palestina contro pro-Israele. Al diavolo le sfumature. A che servono anni di dialettica politica quando puoi offrire uno scontro frontale?
La necessità di fare audience, infatti, è stata soddisfatta. Sostanzialmente Conte accusa Molinari – usando erroneamente il “voi” e allargando così lo spettro a tutta la stampa italiana filoisraeliana – di essere incapaci di condannare le azioni dello Stato di Israele, di giustificarle con la necessità di sconfiggere Hamas e di non chiamare le cose con il loro nome, ossia genocidio.
Dall’altra parte della barricata, Molinari, invitato a definire Netanyahu «pazzo criminale», risponde che si tratta di un giudizio politico di Conte e riporta la discussione al 7 ottobre. Accusa l’ex premier di minimizzare la strage del 7 ottobre e di non essere in grado di condannare Hamas, come se esistessero vittime di serie A e vittime di serie B. Aggiunge inoltre che, nel caso in cui venissero liberati gli ostaggi, la guerra finirebbe. Cosa che – mi permetto di aggiungere – sappiamo non essere vera, visto che ormai il governo israeliano ambisce all’annessione della Striscia di Gaza.
Conte, a sua volta, scivola quando afferma: «La strage del 7 ottobre si è consumata in poche ore, ormai un po’ di anni fa, mentre ogni giorno continua quello che io qui chiamo genocidio». Corretta l’osservazione sul genocidio, sbagliata invece la prima frase: un’evidente fallacia argomentativa che suggerisce che il passare del tempo possa sbiadire il ricordo di un evento traumatico per un popolo.
Non riesco a rassegnarmi al fatto che, in Italia, il dibattito su questo argomento sia ridotto a termini di bianco e nero.
Abbiamo alcuni dati di fatto: il 21 novembre dello scorso anno la Corte penale internazionale (CPI) ha emesso mandati d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dell’allora ministro della Difesa Yoav Gallant e del capo dell’ala militare di Hamas, Mohammad Deif. Tuttavia, un mese fa la stessa Camera di appello della CPI ha annunciato che avrebbe esaminato in modo più approfondito le obiezioni di Israele, secondo cui la Corte non sarebbe competente a emettere tali mandati: una vittoria procedurale per Israele nella contesa giuridica.
Come giustificare la difesa del governo israeliano — e, al contempo, l’accusa di crimini di guerra — da parte di un’intellighenzia che ha sempre sostenuto le istituzioni internazionali come la CPI (si veda il caso Putin)? Le istituzioni internazionali non possono essere difese a fasi alterne.
Questione ostaggi. Netanyahu si è detto disposto a un cessate il fuoco temporaneo in cambio del rilascio degli ostaggi, anche se da tempo il tema sembra passato in secondo piano. Il vaso di Pandora, però, è stato ormai rovesciato da tempo: il governo punta all’esodo totale da Gaza e all’annessione della Cisgiordania.
A questo punto non è più possibile negare che Israele — l’unica democrazia del Medio Oriente — abbia agito colpevolmente per minare le opzioni diplomatiche e mettere in atto quel piano del “Grande Israele” a lungo auspicato dall’ultradestra ora al governo.
Ritornando alla questione del dibattito, in Italia, purtroppo il centro destra e la stampa liberale sono stati e rimangono troppo indulgenti nei confronti delle azioni del governo Israeliano. Il centrosinistra e la sinistra, ferventi sostenitori della causa palestinese, si sono in alcuni casi lanciati in giustificazioni di Hamas.
Allo stesso tempo, l’equazione spesso proposta nell’opinione pubblica — «Hamas = Gaza» — perde completamente di significato, poiché numerosi riscontri mostrano che la popolazione gazawa non sostiene in blocco il movimento islamista.
Il nostro dovere oggi è quello di salvare un popolo che sta subendo lo sterminio totale e che molto probabilmente dovrà subire un esilio dalle proprie terre. Non è più possibile che divisioni dal punto di vista ideologico mirino a sminuire le azioni di questa o quell’altra parte in maniera strumentale.
Se è vero che l’Islam politico rappresenta una grave minaccia per Israele e per l’Occidente, e che Hamas è che una diramazione di un’organizzazione finanziata dall’Iran e dai suoi alleati, è altrettanto vero che questa lotta non può giustificare l’annientamento di un intero popolo. Le democrazie non agiscono così.
L’Europa, pur con sfumature diverse fra i vari Paesi, nei decenni ha cercato di ergersi a baluardo di civiltà, ponendo il rispetto del Diritto al primo posto. Oggi siamo chiamati a far sentire la nostra voce perché la legge non venga svuotata di significato.
Al tempo stesso conta come comunichiamo: l’antisemitismo, purtroppo, è in ascesa. A dimostrarlo è purtroppo l’omicidio dei due membri dell’Ambasciata d’Israele a Washington. A favorire l’antisemitismo concorrono, da un lato, le azioni di un governo che mira a trasformare una democrazia in uno Stato etnico e, dall’altro, un dibattito pubblico inquinato da semplificazioni.
Non possiamo permettere che l’Europa, e l’Italia in particolare, chinino il capo di fronte a simili azioni da parte di un alleato storico. Il governo israeliano non è più difendibile.
Restare in silenzio non è un’opzione.