Se facessimo un excursus sullo stato di salute dei principali governi nazionali europei, scopriremmo che gli unici a non trovarsi in una crisi profonda sono quelli inseriti in sistemi politici bipolari, o quasi.
Infatti, dall’ultimo caso – la rottura della maggioranza nei Paesi Bassi per mano di Geert Wilders – emerge come i problemi maggiori riguardino proprio i grandi governi di coalizione, com’era inevitabile che fosse.
In Polonia la maggioranza è talmente variopinta che l’unico punto su cui sembra concordare è l’avversione nei confronti del PiS, il partito Diritto e Giustizia. Il Belgio è una polveriera che è riuscita a trovare una maggioranza solo dopo mesi di compromessi. In Portogallo, ormai, si vota quasi ogni anno. La povera Francia è in ginocchio per colpa di Macron, la disgrazia più grave capitata ai francesi dalla Seconda guerra mondiale, nonostante il sistema sia costruito per avere due partiti.
La Germania si è salvata per un soffio: una buona maggioranza parlamentare ottenuta grazie a una dignitosa soglia di sbarramento le ha permesso di avere un governo stabile. Resta però a rischio: abbiamo visto l’immobilismo dell’esecutivo Scholz, dovuto alle costanti minacce dei liberali.
Il sistema elettorale spagnolo, pur essendo formalmente proporzionale, è fortemente orientato a premiare i grandi partiti, generando effetti tipicamente bipartitici. È stato volutamente costruito per consolidare un duopolio politico a livello nazionale, mantenendo però uno spazio riservato ai partiti regionali. Il secondo governo Sanchez è in piedi dal 2023, non male visti i tempi che corrono.
L’Italia rappresenta un ibrido, come sempre: figuriamoci se fossimo qualcosa di ben definito. Il nostro sistema favorisce le aggregazioni in due poli (attraverso gli uninominali) ma, al tempo stesso, consente di mantenere le differenze fra i vari partiti.
Il centrodestra ha capito benissimo che lottare unito contro la sinistra è la strategia vincente; a sinistra, hanno compreso un po’ meno questo meccanismo. Il referendum ha mostrato tutte le fratture del “campo largo”.
Tuttavia, alcune forze moderate spingono da tempo per la formazione di un agglomerato centrale che vada dal campo riformista del PD fino a Forza Italia. Oltre a non essere praticabile, questa soluzione non è nemmeno auspicabile.
Non me ne vogliano i nostalgici del Pentapartito – tra i quali posso annoverare anche me stesso – ma corre l’anno domini 2025 e, come disse un giudice: «Ora siamo davanti alla Corte d’Assise e lei è imputato di sedici omicidi».
Nei sistemi politici moderni il nuovo oro è la stabilità e, di conseguenza, i sistemi bipolari offrono maggiori garanzie in questo senso.
Il bipolarismo in Italia, invenzione berlusconiana, si sta lentamente consolidando; far finta che non sia così è impossibile.
Chi critica questa filosofia, adducendo (a ragione) i rischi di un’eccessiva polarizzazione, deve considerare che spetta alla classe politica curare questa ferita, non al sistema. Possiamo aggiungere inoltre che le spinte populiste tendono a esaurire la propria forza molto rapidamente.
Se da un lato il governo Meloni continua a proporre politiche di destra su questioni ideologiche, l’oculatezza finanziaria ha permesso l’avvicinamento alla classe imprenditoriale del Paese. Di che populismo stiamo parlando quindi? È evidente che l’esperienza di governo abbia edulcorato gli animi di un partito che si dichiarava scettico su tutto.
In un contesto di complessità crescente, è bene che la politica prenda atto della necessità di semplificare l’offerta da sottoporre ai cittadini: ciò non significa azzerare le differenze, ma tradurle in una normale dialettica partitica.
È vero: potremmo non sentirci sempre rappresentati se i partiti di riferimento diventano “grandi tende”. Ma questo è il prezzo da pagare per un sistema che, a quel punto, è davvero in grado di agire ed essere incisivo sul piano internazionale.
Se da un lato in Italia, questo bipolarismo “monco” sta crescendo, gli studi comparativi più recenti mostrano semmai che, dopo un breve ciclo di “bipolarismo coalizionale” negli anni ’90-2000 in alcuni Paesi europei, la tendenza prevalente oggi è a una combinazione di frammentazione e polarizzazione.
Ed è anche questa tendenza, una delle cause della instabilità politica del vecchio continente.
Storicamente, nel contesto europeo la tendenza al bipolarismo emerge soprattutto quando sono presenti meccanismi istituzionali maggioritari (es. sistemi elettorali a collegio uninominale o doppio turno, premi di maggioranza) oppure quando l’opinione pubblica e le élite perseguono attivamente la semplificazione del quadro politico (“democrazia dell’alternanza”).
Si potrebbe dire che l’elettorato in Italia abbia seguito i vari astri nascenti della politica, da Renzi fino alla Meloni, ed è vero. Nonostante ciò, da qualche anno ormai si registrano spostamenti di voto solo all’interno di quelle che sono le attuali coalizioni o aspiranti tali. Per capirci, i voti del centrodestra ormai sembrano essere gli stessi, sono solo fluiti in diversi partiti in modo alternato, dalla Lega a FDI. Dall’altra parte, il Movimento 5 Stelle - ora partito rossobruno come Aletheia ha spiegato qui - dopo aver distrutto il sistema politico, sembra aver trovato la sua collocazione nel centrosinistra. Di conseguenza, nonostante tutte le differenze ideologiche, sembra che si trovi dignitosamente in coalizione con PD e AVS. Possiamo prendere questi come indizi che l’opinione pubblica si stia bipolarizzando?
L’Italia è ormai una democrazia matura? Forse sì.
Il tempo del bipolarismo è tornato.